All’Illustrissimo Signor
Procuratore del Regno
presso l’Ecc.mo Tribunale di
Asti
Asti, addì 31 di agosto 1939, XVII Era Fascista
ore 15,30
Illustrissimo Signor Procuratore del Regno,
mi accingo a scriverLe, non certo priva della deferenza e della dedizione che ogni cittadina di buon nome debba conservare e conferire all’Autorità Giudiziaria che Ella degnamente impersona, in un primo pomeriggio caluroso e pieno di arsura, come non se ne vedevano da tempo in questa città anonima e dimentica degli uomini e di Domineddio.
Ma nonostante la fiacchezza del calore che oggi ci invade le ossa e che ci induce a non pensare con esagerata preoccupazione a tutto quello che accadrà domani (vi è forse un domani?) trovo in questo stesso istante le forze e la determinazione per vergarle questo scritto di cui, ne sono certa, Ella vorrà mantenere adeguata cura, dedicandogli l’attenzione umana, se non proprio giudiziaria, secondo il merito che Ella stessa vorrà attribuirgli.
Del resto, in questo luogo ove mi vengono somministrate cure continue, amorevoli e perfino compassionevoli, per via dell’esaurimento nervoso derivato dalla mia colpa, il tempo pare dilatarsi, allargarsi, assumere una dimensione più rassicurante, come se volesse affermare, categoricamente e definitivamente, che lui, il tempo, c’è e non ci farà mancare la sua consolatrice presenza, soprattutto nei momenti della pena e del tormento interiore.
Intendo confessare, qui, su queste poche pagine ingiallite, Signor Procuratore, tutta la mia più viscerale colpa di peccatrice, prima ancora che di cittadina, per tutto ciò che essa mi ha obbligato a commettere. La mia colpa. La mia. Quella di Francesca Elisabetta Birindelli, vedova Federici, di Asti, donna di casa e di famiglia, sottratta ai suoi obblighi umani, morali e civili, alla propria dignità e rettitudine dall’amore di un uomo. Lo stesso a cui avrei distrutto, e in breve tempo, tutto ciò che restava di una vita inutile e miserabile, non meritevole di essere accolta come tale da una donna che ha immortalato la propria per i valori religiosi di fede, speranza e carità e per qualli non meno nobili di obbedienza incondizionata al Fascismo, la cui luce ci illumina, attraverso l’esempio e la lealtà del Duce, in quest’alba di una nuova era, pulita, oserei dire mondata dalla faciloneria e dall’approssimazione che razze deboli e inferiori hanno cercato miseramente di infliggere. Iddio abbia misericordia di loro, giacché io, in verità, non ne ravviso alcuna dentro me stessa.
Bene immagino, ancorché i vapori del bromuro delle tre del pomeriggio mi offuschino leggermente la percezione del tempo, che Vossignoria avrà tratto l’allarme doveroso e rispettabile che deve al proprio uffizio, temendo, oppure più giustamente sospettando, che io abbia commesso un qualsivoglia reato, così come previsto e perseguito dai codici e dalle leggi del Regno d’Italia. La rassicuro immediatamente. Io non ho mai commesso reati. Ma, questo sì, sento profonda, dentro di me, la consapevolezza di aver commesso un crimine. Quello di aver cancellato, annullato, offuscato, obnubilato e offeso l’unica persona che mai mi abbia amato nella mia vita intera, togliendogli la sua.
Della mia infanzia e della sua successiva evoluzione verso la giovinezza, Signore, non sono esattamente buoni i ricordi che conservo.
Mio padre, che Dio possa averne pietà, guardava sempre a me con leggerezza scherzosa e beffarda, preso com’era dalla passione per il suo grammofono e per la collezione dei dischi d’opera cui era legatissimo. Sentivamo Caruso, soprattutto. Quando colui che mi diede la vita (una vita certamente biologica, ma non degna di questo nome) rincasava dopo aver incontrato qualche donna di malaffare, più per sentirsi gratificato dalla sua abilità di seduttore che per mercimonio (soldi ve n’eran ben pochi), faceva spesso scorrere la puntina su quelle incisioni stampate su materiale appiccicoso e approssimativo e per la casa faceva cospargere arie e canzonette del tenore che in famiglia ascoltavamo, ma sarebbe assai meglio dire che sopportavamo, con rassegnata curiosità.
Aveva un debole per la “Mattinata” di Leoncavallo, la cui copia risultava consunta dall’uso e scricchiolava quando l’altoparlante riproduceva la parte muta che precedeva la musica. Ricordo ancora adesso, come se me lo portasse l’odore di una giornata tersa e fresca di inizio primavera, che una strofa recitava più o meno così:
Ove non sei la luce manca
ove tu sei nasce l’amor
ed era quello il punto in cui tutti cantavamo all’unisono, ciascuno impegnato nei propri mestieri quotidiani, chi rassettando la cucina, chi cucendo pazientemente un rammendo a un vestito ancor buono e che non s’aveva a buttar via.
Cos’era, dunque, la luce? E quand’è che veniva buio, quel buio che coincideva con le tenebre dell’anima? La luce era la presenza dell’amore, e le tenebre disorientanti erano la sua stessa negazione.
Mia madre, povera donna, più che di leggerezza viveva di pregiudizi e di preferenze, soprattutto quella per la mia sorella maggiore, che lei chiamava, con vezzeggiativa mielosità, Onestina. Onesta era il suo nome all’anagrafe dello Stato Civile, e onesta lo era davvero, abituata com’era a dire pane al pane e vino al vino, senza pudori né mezze misure, mentre io, al contempo, cercavo di vedere sempre una via di mezzo alle cose, che potesse portarmi a vedere ciò che in esse c’è di buono, sempre cercando un compromesso che potesse alleviarmi il senso di quell’aria cupa che si respirava in famiglia, la cui grevità avrebbe spezzato le reni a chiunque.
E i compromessi possono portare alla morte. Oppure alla follia, scelga Lei, che di morti ammazzati ne ha visti tanti.
Ricordo che una volta mio padre, nello scherzare con me, si mise a mostrarmisi in più di una occasione con un coltellaccio sistemato tra i denti alla bene e meglio. Forse intendeva spaventarmi, e io gli feci credere che fosse vero, perché, in fondo, ero convinta che fosse proprio quello il suo intento. Voleva farmi capire che dovevo sentirmi in colpa di qualcosa che sentivo di non avere fatto. E allora, similmente a un gatto abbandonato su una strada polverosa, mi rintanai in un angolo, raccolsi a me le ginocchia ed evitai di guardarlo in viso. Le persone hanno un debole per i gatti abbandonati e io sentii distintamente che quell’immagine che io restituivo di me al mondo sarebbe stata, insieme, quella della mia presunta arrendevolezza e quella della mia più sottile vendetta. Gatto randagio ero e gatto randagio mi divertii a restare per tutta la vita. Era così che mi aveva voluto la mia famiglia e io ero ben lieta di assecondarne le aspettative. Tanto che finii col credere di avere tutto dei gatti, perfino certe malattie come la rogna, per via d’un prurito incoercibile che, di tanto in tanto, ancor oggi mi tormenta senza tregua. I medici di qui chiamano questo tipo di disturbi con l’aggettivo di psicosomatici. Invero, mi è impossibile credere che la mente possa dominare a tal punto il corpo da causarne una qualche infermità, di grave o di minor portata che essa possa essere. Qualcuno di quelli di qui, che mi curano i nervi e, con risultati assai più discutibili, l’anima, teorizza astrusità quali quella secondo cui perfino il male estremo, il brutto male, il malaccio che porta a morte possa essere determinato dall’incessante sofferenza della mente. Ma io a queste balordaggini non credo. Io son io, e non vedo come quel che causa l’ansietà possa portare a morte. Non è difficile salvarsene, Signor Procuratore del Regno, è sufficiente tagliare ogni ponte col passato, non tornare mai più indietro ma, soprattutto, non permettere a nessuno che pensiamo possa farci del male il raggiungerci là dove ci troviamo e dove abbiamo trovato porto sicuro.
Come tutte le fanciulle della mia età anch’io volevo vivere in pace con tutti, ma quel che mi fu insegnato fu il fare la guerra (oh, che non abbia mai, mai a venire la guerra, quella vera, mai più), mestiere che imparai bene, nonostante il mio iniziale disinteresse. Decisi di pormi nei confronti del mondo come la più affettuosa e taciturna ma disponibile della creature, avvertendo chiunque che se ci fosse stata la necessità di un comportamento bellicoso ma inevitabile, da parte mia, non mi sarei certo tirata indietro e avrei graffiato, graffiato e ancora graffiato l’avversario fino a renderlo completamente cieco, come fanno i gatti.
Mentre mia madre continuava con il suo atteggiamento spavaldo e aperto di sempre, io vivevo ai margini di quel mondo che bene non mi voleva e male mi faceva in continuazione, al punto che posso dire con certezza di non essere mai stata abituata al bene, e di fuggirlo come la peste bubbonica ogni qual volta esso mi venga proposto in qualsivoglia forma.
Del resto, perché mai qualcuno dovrebbe voler bene a qualcun altro in modo gratuito e disinteressato? Per quale lontano motivo dovrebbe, inoltre, interessarsi a un gatto randagio che non vuole essere addomesticato, e che preferisce dormire in qualche rintanata intercapedine, quando piove, piuttosto che al caldo d’un camino, d’inverno? Non che io disprezzassi o che ancora disprezzi il bene come cosa in sé, semplicemente lo trovo un abito assai scomodo da indossare e portare. Avere il viso buono e l’animo incattivito dalla sfiducia mi ha aiutato più e più volte nella vita. Del resto il Dio di cui ho sempre sentito il richiamo è feroce e compassionevole al tempo stesso e un profondo e radicato senso di giustizia mi ha sempre dimostrato che quel che vale per gli altri vale, forse a maggior ragione e con più intenso diritto, anche per noi.
Presi a frequentare, da principio senza speciali entusiasmi, un istituto di religiosi di questa città di collina che odora quasi di montagna, e lì conseguii il diploma di maestra in forma sottomessa e insinuante, come fanno gli stessi gatti quando si assottigliano e si abbassano per poter entrare in qualche pertugio e nascondervisi.
Fu lì che conobbi (castissimamente, è chiaro) un religioso il cui nome non voglio ricordare, il quale prese a parlarmi, oltre che della specchiata virtù cristiana di Santa Teresa d’Avila, il cui sacrificio per mi fu di conforto e di modello (lo sapeva che il giorno della morte di Teresa non è mai esistito?), di un certo signore austriaco che curava i nervi delle persone solo facendole sdraiare e parlandoci di continuo. Psicoanalisi, mi pare si chiamasse codesto approccio. E fu così che nell’insistenza all’eloquio del mio maestro, venni a leggere un romanzo scritto da un triestino di buon ingegno e dalla penna furba e scaltra che parlava di un certo Zeno Cosini, il quale pareva avesse come unica e precipua ossessione quella di smettere di fumare. E ogni volta che leggevo quelle pagine sentivo dentro me crescere un rabbioso disagio e una avversità per il protagonista della narrazione di quello scrittore (Ettore, mi pare si chiamasse) di cui ammiravo tanto lo stile.
Al punto di chiedere, un giorno, al mio maestro, la cui vista cominciava a venir meno, se tutto quello che gli uomini scrivevano nei romanzi fosse autobiografico oppure frutto di una felice o malestra, a seconda dei casi, immaginazione di una realtà “altra” che, pure, non poteva loro appartenere in nessun modo, per il solo fatto di non averla mai vissuta e di non averne mai fatto esperienza.
Egli, sedendosi da presso a me, e tastandomi il braccio per supplire alle sue difficoltà visive, ebbe a rispondermi che certo, chiunque scriva non può far altro che parlare di sé, solo che questo può essere detto in almeno due modi differenti: “Son nato nel Tale luogo cinquant’anni fa” oppure “C’era una volta un Re che aveva cinque figli”.
Io che, da bambina, inventavo continuamente storie per farmi compagnia e addormentarmi nel letto dalle lenzuola bianche e ruvide che nella stagione fredda mia madre mi riscaldava appena con il tepore di un fornelletto per le braci, sapevo che non era così, che nulla di quello che gli uomini scrivono o raccontano ha a che fare con la loro vita, esattamente come mi sembrava una solenne baggianata il fatto che nel romanzo di quell’Ettore lì, si cominciasse a sostenere, e neanche in modo troppo velato, che le malattie del corpo sono associate ai disagi della mente, la stessa cosa che intendono darmi a convincimento in questo luogo in cui sono ricoverata e reclusa.
Di lì a poco non avrei mai più rivisto il mio maestro. Lo trasportarono via da quel luogo sacro per via di certe teorie bislacche che gli erano balenate in capo, tipo che Dio era padre, sì, ma era al contempo anche madre in quanto creatore di vita, e di vita abbondante. Mi pare di rammentare che fu una suora ad occuparsi degli ultimi anni della sua vita, una brava donna devota e timorata di Dio, cui fu dato l’unico ordine imperativo di non cedere alle richieste di quell’uomo che altro non voleva che farsi leggere ad alta voce, lui che con gli occhi non poteva più farlo, romanzi uno appresso all’altro.
Maestra, poi, lo diventai a mia volta e fui assunta in servizio, da prima come supplente, in un istituto femminile poco lontano dal luogo in cui mi trovo ora, e entrai in confidenza con alcune delle mie colleghe coetanee, in particolare con una di loro che mi sembrava simpatica, accattivante, avvenente e traditrice come il suo nome di battesimo, Alessandra.
In maniera paradossale, erano proprio queste contraddizioni del suo animo che me la facevano preferire. Riusciva a parlare in modo freddissimo e distaccato col direttore e un istante dopo sorridere a chiunque incontrasse successivamente, e quando veniva il momento del sabato e della domenica e si doveva inventare qualcosa per tirare via le ore, aveva sempre da parte un po’ di vino o qualche liquore da bere a garganella, dimentiche com’eravamo dell’istituzione scolastica, del direttore e della nostre stesse vite di un tempo. Fu grazie a lei che scoprii che tutte quelle sostanze che ci rendevano ebbre, ancorché non fossero di eccelsa qualità per via dei pochi soldi di cui Alessandra poteva disporre per comprarne, io le tolleravo benissimo e che, oltretutto, apprezzavo moltissimo quel lubrificare la nostra esistenza con le nubi dell’oblio che si dissolvevano poco a poco e che ci portavano, ignare come eravamo, fino al sonno delle prime ore del mattino.
Di Alessandra si sapeva che doveva andare in sposa a un bravo giovane del suo paese e della sua condizione. L’unica volta in cui lo vidi fu anche l’ultima. Lei si allontanò per pochi minuti dalla nostra compagnia e indossò di nuovo quel volto freddo e cadaverico per dirgli addio, un addio definitivo e senza la possibilità di dire neanche una parola, senza spiegazioni, di quelli che vanno presi per quello che sono e basta, imposti, e che debbono essere categoricamente accettati in silenzio. Fu come se lo avesse, di colpo, accompagnato in un gelido altrove, fatto di quel freddo d’inverno che lascia i polpastrelli delle dita di un curioso colore violaceo dapprima, fino a prendere con prepotenza maschia e ineludibile, tutto l’arto, riducendolo a un fascio di fibre che cedono, lentamente, ma inesorabilmente, alla insensibilità prima e, subito dopo, al rigore assoluto, tanto simile a quello della morte. Alessandra, dal canto suo, non mostrò il benché minimo dispiacere per quel giovinotto che, pure, di bene (quel bene che io non conoscevo né volevo conoscere) doveva volergliene, e tanto. A modo suo, s’intende, giacché a me parve, per quel poco che lo intravidi, disturbato mentalmente.
Oh, Illustrissimo, non che fosse pazzo. Aveva, anzi, modi gentili che, tuttavia, a me non parvero né spontanei né, tanto meno, carichi di quell’empatia che ogni essere umano dabbene e ben formato ai precetti del nostro Partito Fascista dovrebbe avere nel rapportarsi a ciascheduno che faccia parte del consesso civile, ove per tale intendo -e lei lo capirà certamente, da brav’uomo ligio al dovere e all’osservanza delle regole proposte dal nostro amato Duce- una uniformità di razza eletta senza eccezioni concesse a chiunque non abbia caratteri (anche somatici e fisici) tali da giovargli il titolo di cittadino dell’Impero.
Alessandra tornò a noi e fece una smorfia come a volersi rilassare il viso. Prese una bottiglia di anisetta, che conservavamo per le occasioni di convivialità e ne bevve ripetutamente delle sorsate lunghe e liberatrici, ne offrì altrettanto a tutte noi e la vita riprese, dopo che ebbe accompagnato il suo promesso nell’unico luogo in cui costui non avrebbe mai voluto recarsi.
E io pensai, allora, che se mai fosse accaduto qualcosa di simile a me, avrei fatto esattamente la stessa cosa. Fu quel che feci.
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