ore 20.00
Il caldo che attanaglia la serata, Illustrissimo Signor Procuratore, mi ha indotto a interrompere la narrazione dei fatti della mia anima. La riprendo dopo una cena frugale, mentre addento una pesca succosa che gronda sulle mie vesti il suo nettare zuccherino e dà sollievo alla gola riarsa.
A Lei piacciono le pesche, Signor Procuratore? Oh, sono deliziose, sa? Non le sembra un vero e proprio sollievo naturale l’addentarle, così come sono, appena colte dall’albero. sugose e mature che siano, o ancora dure che a morderle fan sanguinare le gengive? Le une e le altre, in gelo, sono saporitissime e io, non fo’ per vantarmene, il gelo lo so preparare assai bene.
Sa, è un dolce di una tale semplicità, nell’esecuzione, che riesce financo di maraviglia, quando lo si serve in tavola ai commensali e devo dire che risulta sempre gradito al palato di chi viene a visitarmi. Quando sono a casa, intendo, ovvero quando la calura non mi fiacca le gambe fino a farmele tremolare e finché i miei disturbi nervosi non cedono allo sbalzo pressorio e di umore che spesso mi attanaglia e che rende queste notti insonni e lunghe come i romanzi di uno scrittore russo che ne scrisse uno proprio sulla dualità connessa tra i delitti e i castighi della vita. Non ch’io ami, beninteso, la letteratura russa, trovandola noiosa e ridondante. Normalmente, e fatta salva qualche rara eccezione, per quanto io mi sforzi non riesco a ricordare i nomi dei personaggi e il grado di parentela di cui si parla. Ma quel bravo cristiano che parla di umiliazioni, offese, idioti (ce ne son tanti qui, sa?) e giuocatori d’azzardo è riuscito a redimere l’umanità colpevole, attestando che ad ogni azione criminosa -quelle dell’anima, in ispecie- corrisponda o debba corrispondere una azione uguale e contraria, esattamente come accade nelle leggi della fisica.
Ma se Ella, Signor Procuratore, dovesse comunque avere a cuore di saggiare un buon gelo, raccolga il succo di un chilo abbondante di pesche, so passi per il colino, assai meglio se con una garza, lo allunghi con un po’ d’acqua e vi versi tre cucchiajate di zucchero, o anche meno, se volesse apprezzarne il sapore acidulo. Poi aggiunga dell’amido e versi il tutto in un pentolino d’alluminio o ancor meglio d’acciàro di quello più resistente, accenda il fuoco e con un mestolo di legno lo faccia andare finché il tutto non s’addensa. Io non so darle le dosi esatte, che pure conservo in un quadernetto che la mia povera mamma Franca di nome e di fatto, aveva via via riempito delle sue ricette più riuscite. Non che in casa nostra, badi, s’avesse a morir di fame, giacché anche nei tempi più bui il mangiare non era mai mancato, così come, per le feste, il mio caro nonno, la cui memoria m’accompagna sempre, ci portava di quando in quando una bottiglia di Barolo, nel quale, pure, era tanto bello inzuppare del pan secco tagliato a listarelle sottili. Ad ogni buon conto, lascerà raffreddare il composto quel tanto che lo renda tiepido fino a versarlo in uno stampo da budini e collocarlo di poi sur un piano dove poggerà dimolto ma dimolto ghiaccio, di modo che in un pajo d’ore il dolce sia pronto e ben gelido. M’avrà a rammentare.
Ma stia bene attento alle mosche, le quali d’estate son particolarmente insistenti e dopo un po’ vengono a noja, per via del loro ronzare attorno alla frutta che rilascia pian piano tutta la propria dolcezza, facendola appresso degenerare in una poltiglia che sa di forte.
Il rapido degenerarsi delle cose e delle circostanze, Signor Procuratore, non è altro che la perfetta metafora e la rappresentazione più vivida di quel che accade agli umani quando sprofondano nel gorgo, ignari del proprio destino e solitamente muti, rivestiti solo dell’inconsapevolezza di quanto loro sta per succedere e che li porterà a polverizzarsi del tutto, come chicchi di caffè nel macinino, rendendosi inconsistenti, impalpabili, quasi volatili, che basta solo un soffio per disperderli, costringendoli a lasciar di sé stessi solo un sentore che passa dopo poco.
Dev’esser per questo che il beneamato Duce ci ha insegnato a far penitenza di noi stessi e dello straniero rendendoci avvezzi al surrogato di cicoria e all’orzo tostato. Il primo ci rammenta l’amarezza e la durezza della vita, mentre il tiepido retrogusto dolciastro del secondo distoglie dall’oblio l’innegabile circostanza che nell’umana vita di nojaltri le soddisfazioni son poche e hanno da esser assaporate a piccoli sorsi bollenti, in ispirito di sagrifizio ed abnegazione.
E fu una sera dello scorso settembre che lo vidi per la prima volta.
Era un uomo di statura medio-alta. Bello, o quel che si dice tale, non lo era affatto. Aveva il naso affilato e schiacciato sul fondo, e restituiva un sorriso che pareva più di bambino che di uomo adulto quale, indubbiamente, doveva risultare dai suoi dati anagrafici.
La cosa che mi colpì di lui, prima ancora della sua attività di scrittore -chè tale era e tale, probabilmente, era stato da tutta e per tutta la vita- fu la sua propensione, anch’essa fanciullesca, allo stupore.
Si stupiva di tutto, quell’uomo di età non più giovane, eppure dall’aspetto di un ragazzino. Portava una barbetta incolta che -come mi disse successivamente- si era fatto crescere per non apparire troppo imberbe agli occhi di chi lo incontrasse, non perché, in sé, pensasse che ne aveva un bisogno effettivo. Anzi, a volte la barba, quando principiava ad allungarglisi gli dava un prurito fastidioso che gli indicava il bisogno di recarsi dal barbiere per farsi ammorbidire la pelle del viso con un asciugamano caldo e procedere, a colpi di punta di forbice, a farsela accorciare per finire con una spruzzata abbondante di dopobarba al mentolo.
Mi ero recata alla Libreria del Fascio, che ancora esercita in un piccolo locale, non lontano da posto in cui mi trovo, e in cui or non è molto stanno per spegnere le luci generali, cosa che mi obbligherà ad accendere una candela di sego per proseguire a scriverle anche in quelle ore in cui il sonno prende il posto dell’afa. Spero ne sia felice, perché accoglierà la colpa di un’anima tormentata e ne stabilirà il giusto castigo, che mi glorio di scontare.
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