ore 22.00
Quell’uomo, il cui nome indiscutibilmente romano non voglio neanche ricordare, tale è il dolore che il solo evocarlo mi crea -non trova incredibile, Illustrissimo Signor Procuratore, come un solo nome possa devastare una intera esistenza?- era venuto a presentare un suo libro sulla riforma dell’istruzione dei giovani messa in atto dal Ministro Giovanni Gentile. Altri partecipanti al modesto e scarsamente frequentato evento mi avevano informata del fatto che aveva, l’anno prima, pubblicato un romanzo sul tormento interiore di un sacerdote che aveva perduto la fede.
Parlava dimostrando di conoscere assai bene il fatto proprio e aveva un’oratoria che sapeva coinvolgere fin da subito l’attenzione degli astanti. Pareva quasi che conoscesse perfettamente le reazioni degli astanti, ne preveniva le domande anche con gustosi motti di spirito che rendevano l’atmosfera, solitamente plumbea, di queste riunioni per pochi eletti, leggera e dal respiro piacevole, corroborando il suo discorrere con un vizio di pronunzia che non mi veniva affatto ingrato.
Tra le sue metafore e le mie titubanze, mi riuscì tuttavia agevole e di non difficile approccio l’avvicinarmi a lui con la scusa di farmi dedicare una copia del suo libro che avevo tra le mani e che avrei pagato al defluire del pubblico che aveva partecipato all’evento, circostanza che egli, con mio imbarazzo e sbigottimento che malcelai lì per lì, evitò con la bravura di un Piola, comunicandomi che si sarebbe trattato di un suo dono e che non c’era alcun bisogno ch’io spendessi i miei denari per quello che definiva un suo nonnulla.
Mi chiese quale fosse il mio nome, per vergare sul frontespizio del suo libriccino (aveva delle dimensioni che, Ella mi comprenderà, non permettevano esattamente di definirlo come volume vero e proprio) la dedicatoria richiesta in cui, pensavo, avrebbe scritto di pugno due o tre righe affrettate, sul modello di quanto doveva aver già fatto per altri richiedenti, per molti o pochi che fossero stati. Mi disse che il mio nome gli era caro e grato, giacché gli ricordava quello di una buona bambina che aveva conosciuto in gioventù.
“A Francesca
con personale e affettuosa gratitudine,
in ricordo di una giornata di vero amore fascista.”
Quella frase, seguita dalla sua firma svolazzante resa in frettolosa ma bella e ordinata grafia, mi seccò. Le devo confessare, Signor Procuratore, che cominciai a sentire il peso del fatto che di lì a poco quella gradevole persona mi sarebbe di nuovo cominciata a divenire estranea. Quand’ero bambina, tra le fiabe che udivo, restavo sempre con aria imbronciata e interrogativa al sentir narrare di Cenerentola, che doveva rientrare in fretta e furia prima della mezzanotte, altrimenti la sua bella carrozza sarebbe ridiventata una zucca. Ma non è forse vero che non si vive nel mondo delle fiabe, e che non ci si abitua mai al bene, per quanto di piccola e breve portata esso sia, che altri ci proporzionano? Ecco, sì, Lustrissimo, nel bene non mi sono mai ritrovata appieno. Non che non lo apprezzi in quanto tale, beninteso, o che non ne conosca la modalità fascista trasmessaci da Mussolini che ho sentito più e più volte alla radio nella canzone che mio padre canticchiava e che tutti amiamo: la bella abissina dalla faccetta nera non aveva forse diritto anch’essa ad esser romana, e ad avere un altro Duce e un altro Re? E non era questo il suo bene? Eppure, quando mio padre ne ricordava le note ad sensum, fuggivo con ritrosia anche dalla sua più tenera, ancorché occasionale, carezza di genitore. Perché mai quell’uomo appena conosciuto, dunque, avrebbe mai dovuto farmi del bene o, ancor peggio, volermene?
Estranei eravamo ed estranei tornammo ad essere fino al mattino dopo quando, dopo aver sorbito la dolcezza dell’orzo di cui le parlavo, presi un foglio di carta elegante, intinsi la penna nel calamajo e mi accinsi a vergargli alcune note di cortesia (è la cortesia un bene anch’essa? Non sapevo… non so… non saprei…) da recapitargli con il dispaccio della posta del mezzodì.
Rammentai, e probabilmente solo allora, me ne rendo conto nel mentre le scrivo, che nel congedarmi, la sera avanti, mi strinse la mano nella sua (oh, le sue dita affusolate… le medesime di un suonatore d’istrumenti a corda!) e mi disse “La cercherò ancora, se mai dovrò ritrovarmi a passare per una di queste strade.”
Rispose quasi a giro di inoltro alla mia missiva e ne rimasi più che stupefatta. Temevo che quell’incontro fugace e certamente di circostanza non potesse avere conservato in sé null’altro che la patetica ma indispensabile cortesia di quella circostanza, ma principiammo a intraprendere un fitto scambio epistolare in cui ci raccontavamo delle rispettive vite, dei pensieri che ne facevano parte, dei dubbi, delle incertezze, arrivando perfino a toccare temi ed argomenti che Ella, Illustrissimo, avrà senz’altro da considerare marginali e risibili, nella loro puerile trattazione. Come quando ebbi a scrivergli di quando da bambina mio padre e mia madre mi recarono ai giardini di Torino, e di come in quella città per me magica, in quelle passeggiate attraverso Piazza Castello, per me magiche, nonché nei magici locali in cui ci fermavamo, ora per un breve ristoro di cioccolata, ora per una bibita fresca, nel percorrere quegli ordinati spazi ripieni di alberi ed altra abbondante vegetazione, io scorsi vagar tra gli arbusti delle graziose e invadenti scimmiette, animali curiosi e di singolare carattere invadente, che giocavano allegre e divertenti, ora mettendosi goffamente le mani sugli occhi, ora sulla testa, ora sulla bocca, scomparendo, di tanto in tanto, per poi ricomparire in tutta la loro sfrontatezza provocatoria ma rassicurante.
Ed egli era lì, Signor Procuratore del Regno, c’era, era presente, vivo, e il suon di lui mi arrivava pressoché ogni giorno col suono del fattorino delle lettere al campanaccio d’ingresso della mia casa.
Da principio feci in modo di scacciarlo con ogni mezzo, ivi compreso quello del telefono. Quell’apparecchio di colore bianco che ancora conservo nella casa della mia famiglia di origine e che mio padre mi permetteva di usare con estrema e saltuaria parsimonia, lo ripresi in una giornata di ottobre per dirgli che quel contatto, quel gioco epistolare che si era andato a formare nel tempo, doveva pur finire, in un modo o nell’altro. Fu la prima volta che gli parlai, dopo che quel caleidoscopio di lettere, spesso vergate in maniera affrettata, aveva sconvolto il mio animo ben oltre le mie aspettative.
Ritenevo fosse buona cosa proporgli di coltivare una semplice ma sincera amicizia, senza pensare a un eventuale domani, senza impegno da ciascheduno, così, come veniva, cosa che mi parve, oltre che ragionevole, anche piuttosto ardita. Non stava certo bene che la mia immagine di fronte a una società specchiatamente fascista e dabbene potesse essere messa in ridicolo dall’occasionale contatto con uno sconosciuto che tale era e tale doveva rimanere, chè la confidenza non è buona cosa che venga elargita con facilità e leggerezza.
Ma tutto, tutto di me era intriso di lui. Aveva un modo nuovo, sconosciuto eppure così famigliare per me di esprimermi i suoi pensieri e le sue impressioni sulla vita, sull’amore e persino sulla sua scrittura istessa. Pareva che quell’uomo fosse venuto a me con la sola forza dei suoi piedi per mostrarmi un miracolo che io non avevo mai conosciuto. Quell’uomo unico e sorprendente fu, è sempre stato e per sempre rimarrà la persona migliore che abbia mai fatto parte della mia irreprensibile vita.
E fu esattamente la persona che uccisi.
Le ho accennato al fatto che quell’uomo, non lo conobbi, no. Lo riconobbi, ed è ciò che mi sembra essenziale.
Se Lei guarda, Signor Procuratore, al testo sacro della Genesi, leggerà che Adamo conobbe Eva. Quello stesso uomo, del cui nome non voglio ricordarmi, e che di cose sacre si intendeva con sufficiente conoscenza e smisurato entusiamo (ma credeva egli in Dio? Le debbo confessare che non lo so e che, ancor oggi, non ne sono certa), mi chiarì, e questo è certo, del doppio significato della parola che indica la conoscenza, ma v’era di più e di altro, nel mio riconoscerlo. In lui vedevo me. Mi pareva che tutta la mia vita, e persino il mio amato Riccardo mi avessero condotto da lui. Ne rimanevo imbarazzata, disorientata, inzuppata, ebbra.
Ogni cosa che mi diceva mi interessava. Nel senso che la trovavo di indubbio interesse, per via della profondità che aveva nel discorrere, ma anche e soprattutto perché mi riguardava. Egli non parlava solo (e con quale cognizione!) di altro da noi (fan tremare certi pronomi personali, Illustrissimo, mi creda), egli parlava di me. Ogni cosa corrispondeva in modo perfetto al mio sentire, ogni singola parola che veniva dalla sua voce. Era come se egli leggesse tutto il testo che io avevo già vergato con fatica nella sua anima, valorizzandone i toni e impregnandoli di senso.
Furon proprio le sue conoscenze bibliche a farmi riflettere sulla pace e sulla sua vera essenza. Amava citare un passo dalla Lettera di San Paolo Apostolo ai Romani che conosceva a memoria:
“Se è possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti gli uomini.“
Insisteva, e con caparbia ostinazione, sull’espressione “per quanto dipende da voi“. La guerra, Signor Procuratore, dipende sempre dagli altri. Mai da noi stessi. Che sollievo mi davano quelle sue parole! Mi riaprivano il respiro e le repiravo a pieni polmoni, ossigenandomi di loro. Era quello l’amore? Era amore quello che provavo? Quel che posso dirle, oggi, in queste righe che -quanto lo spero!- Ella starà leggendo con partecipazione emotiva, è che non ne ho conosciuto d’altro tipo, né, tanto meno, di maggiore perfezione.
“L’amore è fascista.” Così mi disse un giorno dei seguenti, e io mi sentivo completamente compenetrata da lui e in lui. Ricordavo quella melodia tedesca che ascoltavo alla radio con Riccardo e, nel cercare di ricostruirne il testo mi venne in mente con precisione sorprendente che
Uns’rer beiden Schatten
Sah’n wie einer aus.
Daß wir lieb uns hatten
Das sah man gleich daraus.
Und alle Leute soll’n es seh’n,
Wenn wir bei der Laterne steh’n
Wie einst, Lili Marleen.
Wie einst, Lili Marleen.
Mi discioglieva le forme dai veli, fremente com’ero. O dolci baci. O languide carezze! Pareva conoscere senza sbagliarsi ogni parte del mio corpo. E mi sentivo me stessa. Di più, sentivo che ero per lui e solo per lui. A volte, nelle ore dense che trascorrevamo, mi chiedeva persino scusa se, di quando in quando, sentiva il bisogno di voltarsi brevemente e di sentire le mie mani sul suo dorso. E di nuovo mi cadea fra le braccia.
Fu di mattina, anche se non rammento il giorno esatto, che lo uccisi.
Mi guardava col suo volto che non dimenticherò, abbozzando il suo infantile sorriso che avrebbe tormentato i miei ricordi in tutte le notti stupide a venire. E mi diceva che era giunto alla determinazione di voler passare la vita con me, che ero io la sua vita istessa, e che altro non desiderava che il resto della sua esistenza fosse permeato da quel pronome di prima persona plurale che tanto m’è duro e lancinante ripetere.
Non so cos’ebbi, cosa mi balenò in mente, quale insulso pericolo io paventassi per me e pe la mia medesima esistenza terrena e fascista, ma pur rimanendo, sul momento, con un senso di totale vertigine, come se si fosse aperta, innanzi al mio sguardo, la voragine infinita di un burrone che mi avrebbe portato alla morte civile. La stessa che io diedi a lui.
Tornata a casa non dubitai un attimo nel prendere un foglio e una stilografica col pennino nuovo che intinsi nell’inchiostro color seppia e ancora liquido del càlamo.
“Gentile Signore,
La prego di non cercarmi né di contattarmi in alcun modo e per nessuna via di comunicazione, nonché di evitare, d’ora innanzi, qualsivoglia riferimento o coinvolgimento della mia persona o di qualcheduno dei miei affetti.
Stia bene.”
Mi mordevo le carni delle labbra, il sangue che ne sgorgava si riversava a brevi ma consistenti fiotti nella mia bocca, lasciandovi un vago sapor di metallo. Poi feci in modo che quel biglietto fosse spedito col primo dispaccio postale disponibili ma nei giorni immediatamente seguenti ricevetti sue notizie sempre più allarmanti che riguardavano la sua salute e che, di certo, mi avrebbero condotta, di puro istinto, a gettarmi di nuovo tra le sue braccia per affondarmi in lui e chiedergli perdono per quella falsa forma di cortesia che nulla aveva di mio, ma che la mia fedeltà al Duce e al suo Governo mi imponeva in modo imperioso e assoluto.
L’ho ucciso, sì, Illustissimo Signor Procuratore. Ho assassinato i suoi sogni, le sue aspirazioni, il suo amore per me e per tutto il mondo riconosciuto che eravamo. L’ho fatto per fedeltà a me stessa, alle regole del Fascismo e alla volontà del Duce, suo condottiero.
Conto sulla Sua compensione. Attendo la Sua condanna.
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