Ore 18.00
Quella breve, occasionale ma così intima amicizia deve aver segnato, e solo ora me ne rendo conto, la mia entusiastica vita tesa alla incondizionata gioia per l’ideale fascista, più di quanto io ammisi a me stessa. Mi accadde più volte di ripensare, dopo la fine dei nostri comuni studi, a quanto quella ragazza bellissima abbia fatto per il mio più profondo sentire, insegnandomi che uccidere per salvare la propria essenza di italiani ligi al proprio dovere non è affatto un crimine. Aveva ucciso l’amore di quel bellimbusto di passaggio, sì, ma quale era la sua responsabilità? Inoltre, perché mai doveva sentirsi ed essere costantemente perseguitata per il solo fatto di aver rifiutato quello che ella stessa non voleva? Quel disgraziato l’amava perdutamente, sì, ma doveva forse, e solo per questa cagione, asfissiare le sue aspirazioni e la sua adesione al modello di vita della brava donna fascista, così come il Duce ci ha insegnato?
Era stato, il suo, a ben vedere, un incessante dichiarare la propria responsabilità ma non la propria colpa, ed è fuor di dubbio che Ella, Illustrissimo Signor Procuratore, solo di responsabilità può e deve occuparsi.
Rammenterà che una quindicina d’anni or sono, un deputato bolscevico e socialista, rammollito come il suo nome di battesimo, Giacomo, fu ritrovato cadavere e che la pubblica opinione parlò di morte conseguente a un gesto violento, intenzionale e comunque teso a provocarne il decesso. Il nostro Duce, cui ignobilmente fu attribuita la responsabilità morale di quel fatto, al punto di individuarlo come mandante di quello che certamente fu opera di qualche balordo di strada, come ebbero a dimostrare le prime indagini, uscì a testa alta da quella insinuatoria bassezza, pronunziando le frasi che mi sono più care tra tutte le sue:
“Se il Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello e non invece una superba passione della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il Fascismo è stato un’associazione a delinquere, a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho creato.”
Principiai il mio lavoro di maestra con rinnovato entusiasmo. L’intelligenza dei miei alunni mi permise di plasmarli e modellarli non già a mio piacimento ma secondo i precetti del Partito Nazionale Fascista.
Rammento che tra quei bambini che accompagnavo di buon grado alle attività ludiche del Sabato Fascista ne era inserita una di provenienza argentina che non parlava altro che la lingua spagnuola, e che mi faceva molta pena. Non trova anch’Ella, Signor Procuratore, che lo spagnuolo abbia in sé qualcosa di barbaro, primitivo e financo volgare? In verità, appenderlo è estremamente semplice, in fondo basta aggiungere la -s finale a buona parte delle parole italiane di origine latina, ma non ravviso nella cultura di questa lingua disgraziata alcun apporto, benché misero, alla ricchezza del patrimonio italiano e fascista. In Ispagna, tre anni fa, le gloriose milizie del Generalissimo Francesco Franco hanno reso cadavere un orrendo pederasta ingiustamente definito “poeta” dai suoi pari. Quel Don Chisciotte, di cui si sente parlare, non rappresenta altro che una goffa marionetta da teatrino per infanti, un buzzurro secco e allampanato, sempre preso a discorrere con un servitore grasso, indolente e ignorante.
Comunque mi diedi assai da fare per questa fanciulla, con l’intimo desiderio del mio sagrifizio per la Scuola del Regno, e mi recai all’ambasciata d’Argentina che trovasi in Roma, per discorrere del caso di questa poverina con un addetto che lì lavorava, occupandosi dell’italianizzazione dei suoi compatrioti.
Nell’entrare nel maestoso e grandioso edifizio, pieno di porte lignee e finestre, che quasi incuteva timore per la seria e rimbombante austerità che evocava, notai un giovinotto elegante e di buone maniere, vestito in divisa, che mi diede le prime informazioni sommarie di cui necessitavo, a cui aggiunsi ulteriori richieste, assolutamente pretestuose per me, che gli porgevo al solo scopo di prolungare vieppiù la conversazione.
Pareva di buon carattere, Illustrissimo, e lo era. La sua mitezza, la sua pazienza, la sua dedizione al lavoro, per non parlare della sua totale e assoluta fedeltà al Duce mi rassicuravano.
Tollerava di tutto, quel brav’uomo, persino le correnti d’aria di quell’ambiente dai corridoi ampi, vuoti e rimbombanti, cosa che, al contrario di quel che accadeva a lui, a me furono talmente contrarie che giusto mentre stava per terminare quel soggiorno romano, con l’intenzione di ricevere la Benedizione del Santo Padre Pio XI, allora felicemente regnante, caddi inferma d’un odioso male di petto che mi affliggeva il respiro.
Fui ricoverata, proprio grazie all’interessamento di quell’uomo bravo e irreprensibile, nella clinica del Professor Francesco Saverio Petacci, che allora esercitava come medico dei Sacri Palazzi apostolici e aveva in cura il Santo Padre medesimo.
Veniva a trovarmi di tanto in tanto, quell’uomo così perfetto ai miei occhi da restarne attratta come in preda ad un incantesimo. Mi recava dei giornali, di quando in quando, e seppi che, con ogni probabilità, sarebbe stato richiamato dal Governo per la campagna d’Etiopia, dove si sarebbe fatto inviare come volontario e dove si sarebbe fatto onore al fianco dei generali del Duce.
Per questi e ben altri più nobili motivi, decidemmo di sposarci, prima che egli potesse partire e con contenuto ma evidente entusiasmo. Fu una cerimonia di netto sapore fascista e tutto ciò ci fece onore, in quanto novelli sposi e componenti di un nucleo famigliare italiano.
Ne uscimmo raggianti e sorridenti, come si deve sorridere in un matrimonio fascista, e io ero diventata la Signora Federici.
Festeggiammo le nozze con un viaggio in quell’Argentina da cui tutto, a voler ben vedere, era cominciato, atterrando a Buonaria, di cui tollerammo di buon grado l’orripilante espressione linguistica, ripieni d’isperanza e di progetti pel radioso futuro famigliare Fascista che ci attendeva.
Nel ripensarci ora credo di non aver vissuto un periodo sì divertente e pieno di impegni mondani. Riccardo (questo era il nome di colui che divenne il mio primo e unico marito) mi portava spesso alle feste da ballo che le Autorità Diplomatiche organizzavo, e ci lanciavamo in giravolte e turbinii di danze alla moda. Pareva che i miei piedi si muovessero per conto proprio e che sentissero, addirittura, i nuovi ritmi che arrivano dalle Orchestre di Oltre Oceano, prima ancora che essi arrivassero al cervello. Ridevamo di cuore, sinceri, ben disposti, ma soprattutto Fascisti, mentre Luigi Braccioforte suonava la sua tromba con la sordina e canticchiava. d’una voce roca e sorniona al contempo, di santi che andavano marciando.
In quelle occasioni venivano serviti arzete, bevande arlecchine, qualche brioscia, bombole, marroni canditi che risultavano estremamente graditi al mio palato. Gli uomini preferivano il pantosto o qualche tramezzino, come lo chiama il Poeta Vate, cibi più corroboranti e adatti alla fatica che rivelavano dopo un incontro di pallacorda.
Riccardo apprezzava che io reggessi assai bene l’alcole, e incrociavamo le braccia brindando dopo che ci venivan servite un paio di coppe di sciampagna, e poi i nostri piedi così traditori, ci riportavano sulle piste accompagnandoci con le musiche dello slancio.
Spesso ci recavamo a vedere qualche pellicola comica, giacché al nobilissimo Duce pareva piacessero assai i rulli del Grasso e del Magro, che, tuttavia, non venivano proiettati nelle sale, dove, però, assai spesso, e per pochissimi centesimi, era possibile assistere alle peripezie di Ridolini. E io ridevo, ridevo, ridevo. A volte senza sapere nemmen per cosa.
In casa la vita scorreva con una sorprendente tranquillità. In quelle domeniche in cui non s’era impegnati in qualche circostanza sociale, alla sera, mentre preparavo le lezioni per il giorno successivo, sfogliando qualcuno dei volumetti della Casa Editrice Salani, di quella Biblioteca dei Ragazzi che tanto mi piaceva proporre ai miei allievi, accendevamo la Radiomarelli.
C’era una canzone che veniva trasmessa spesso dal canale radiofonico di Berlino, e che, ruotando la manopola della sintonia, cercavamo ogni volta che le valvole ci erano propizie. Parlava di una caserma e di una lanterna che gli stava di fronte. E restavamo muti, increduli, quando una voce femminile, ma con alcune tonalità da maschiaccio, arrivava a cantare
Aus dem stillen Raume,
Aus der Erde Grund,
Hebt mich wie im Traume
Dein verliebter Mund.
E anche noi creavamo quegli spazi silenti in cui volevamo coinvolgere le nostre bocche innamorate, finché Riccardo non crollava esausto non appena toccato il letto e io gli accarezzavo la nuca, mentre il sonno si impossessava repente di lui. Oh, Illlustrissimo, non erano sagrifizio e immolazione i miei, erano devozione e obbedienza, e di ciò mi convincevo sempre più quando mi accingevo a spegnere il lume.
Non ho alcun rimpianto, no. Né del bene ricevuto, né del male. Tutto mi è uguale, in fondo.
Pochi mesi più tardi quello che fu e resterà per sempre mio marito, cui furono sempre attribuiti compiti di estrema delicatezza e responsabilità, fu destinato alla supervisione della fornitura di fosgene per la Guerra d’Etiopia e partì per quelle regioni dell’Impero per compiere il suo patrio dovere di italiano fedele.
E fu, se ben ricordo, in un giorno in cui i miei alunni erano impegnati in un compito d’ornato e di bella grafia che il Sindaco di questa città venne a cercarmi a scuola. Entrò dalla porta dell’aula scoprendosi il capo, l’aria contrita e il volto solcato da lagrime di circostanza, sgorgate più per essersi stropicciato gli occhi apposta che per autentico e sentito dolore
Mi comunicò con estremo imbarazzo che Riccardo era venuto meno eroicamente nel maneggiare quello stesso fosgene, destinato alla negra popolazione d’Etiopia e non certo al suo italico sembiante. Recava in mano un pacchetto con due medaglie al merito, che conservo ancora nella càntera di cima del mobile della camera in cui tanto aveva dormito. Erano l’espressione dello spirito contrito dello stesso Duce, ne ero certa.
Tuttavia non mostrai dolore. Il dolore non serve ad alcunché, Signor Procuratore. Esso è necessario, conseguente e successivo alla vita stessa. Ma non utile. Ogni dolore ci è inutile, nella maniera più perfetta e spietata in cui si manifesta. Ciò che è utile, e soprattutto per la nostra italica causa, è la fatica. La stessa con cui trascinai a casa i miei passi sfiniti ma disobbedienti e discoli e la medesima con la quale riposi le medaglie che mai mi avrebbero restituito le labbra di Riccardo, le stesse che erano perdute per sempre e che avrei ritrovato, riconoscendole, nell’uomo che avrei assassinato.
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